L'ira onesta del Pelide Achille.
Su chi cela una verità e ne dichiara un'altra.
Sono trascorsi nove anni dall’inizio della guerra di Troia e sotto le mura regna il silenzio dell’impasse. Non solo il conflitto si è arenato, ma si è creato un vuoto tra gli scudi achei. Non è più un uomo a troneggiare tra le fila dell’esercito, bensì la sua assenza. Laddove una criniera leonina di lunghi capelli d’oro sfavillava al sole come la lama della spada che brandiva con tanta sicurezza, ora resta solo la lancia opaca di qualche oplita consumato da anni di conflitti senza esito. Le tende dei Mirmidoni sono a un’estremità dell’accampamento; là giace solo, nella sua dimora d’occasione, il loro capo. Una piccola ambasceria raggiunge l’ingresso e chiede il permesso di entrare. Si tratta di tre uomini di tutto rispetto: Fenice, che gli fu precettore; Aiace, che gli fu eroico modello; Odisseo, che non ha bisogno di presentazioni. Achille rende l’ospitalità come si confà a chi bussa alla porta secondo l’usanza greca e, dopo un lauto pasto, si lascia avvicinare da Ulisse, mandato da Agamennone per tentare di riportarlo definitivamente in battaglia dopo la morte di Patroclo e sbloccare una volta per tutte la situazione. Odisseo ha il dono di Hermes il Messaggero, la divinità che sovrintende le arti buone e meno buone della retorica, patrono dei confini e del loro superamento, dei commercianti e dei ladri, dei retori e dei sofisti. Agamennone lo ha inviato sapendo che solo lui potrebbe trovare parole alate per fare breccia in Achille, di cui tuttavia Odisseo – meglio di tutti – conosce la tempra. Il leone acheo, dopo aver pazientemente ascoltato gli argomenti di Ulisse, dà una delle risposte più incredibili di tutta l’epica antica:
Nobile Laertide, molto ingegnoso Odisseo
è mio dovere dare una risposta franca su come
la penso e su come andrà a finire perché non continuiate
a garrire sedendomi vicini uno qui e l’altro là.
Mi è odioso quanto il portone della casa di Ades
chi una cosa nasconde dentro di sé e un’altra dichiara.
Chiudo la pagina, mi batte forte il cuore. È l’intervallo. Mi giro e vedo Bruno, di cui conosco e apprezzo le profondità, accasciato sul banco.
«Bruno».
«Sì, prof?»
«Qual è l’episodio, l’evento o la scena dei poemi omerici che ti ha toccato di più?»
«La morte di Patroclo, prof».
Colpito per via della vicinanza tra la sua risonanza emotiva con Patroclo e il mio batticuore per il cugino Achille, lo incalzo: «E perché mai?»
«Perché fu una lotta impari: prima venne indebolito da un dio, poi ferito da un soldato e infine fatto fuori da Ettore. Non si meritava tutto questo».
Ci sono momenti in cui la sensibilità di uno studente, la sua ricettività e la sua capacità di fornire a te insegnante una prospettiva totalmente diversa su ciò che credi di sapere, è qualcosa di cui si ha visceralmente bisogno, qualcosa che vale ben di più dei consigli triti che ti potrebbe dare un qualsivoglia amico di lunga data davanti a una birra. Lo guardo col batticuore perché in verità avrei bisogno che mi girasse la domanda, avrei bisogno di confrontarmi col suo sguardo leggiadro su quello che attraversa me dopo la lettura delle parole di Achille.
Si dice che la più bella foto della storia dell’alpinismo sia una fotografia mancata. Nel 1953, l’apicoltore neozelandese Edmund Hillary scalò l’Everest per la prima volta assoluta, in compagnia di Tenzin Norgay e in rappresentanza delle mire espansionistiche della Regina d’Inghilterra. Una volta arrivati in cima, Hillary era così poco interessato a passare alla storia al punto da dimenticare di chiedere al compagno di cordata di fotografare lui, rappresentante della Corona britannica, preferendo scattare lui stesso una foto al portatore. La miglior celebrazione della conquista fu una celebrazione mancata, primo e unico trionfo inconsapevole del popolo degli hunza. Così, la più bella domanda che mi sia stata fatta oggi da Bruno è una domanda mancata. «La morte di Patroclo, prof» – e poi più niente, silenzio, di nuovo la posizione accasciata sul banco. Questo mi ha costretto a chiedere alla scrittura di interrogarmi.
Pare che, per sfuggire alla chiamata alle armi sotto le mura di Troia, sia Odisseo sia Achille avessero cercato uno stratagemma per restare tranquilli in patria. Ulisse si finse pazzo mentre, vestito di stracci, solcava la terra dietro al vomero e alla bestia. Achille, nella sua bellezza femminea, si finse ancella tra le dame di Ftia e venne scoperto proprio da Odisseo, il quale era a conoscenza del vero tallone di Achille: l’incapacità di quest’uomo di mentire a se stesso e agli altri. Porgendo doni alle ancelle, tra questi vi nascose lo scudo del guerriero, che alla vista del bronzo rilucente non potè più fingere, si strappò le vesti e rispose alla sua vera natura marziale. Per questo – e per converso – Ulisse è paragonato a un polipo, per via della sua capacità di avvolgere la situazione nella spire di un ingegno multiforme, confondendo, pianificando, attendendo e cercando una strategia. Dimmi il tuo nome – Outis, qualcuno che non è. Nessuno è il mio nome. Achille questo non lo può fare: la sua impulsività non è il capriccio dell’adone tutto muscoli e nervosismo, quanto la risposta di un cuore puro e di un carattere netto, seppur nella sua natura battagliera.
Ed eccolo che piange, l’eroe sfavillante dalla morbida cresta leonina, in riva al mare; eccolo che invoca la ninfa Teti, sua madre, perché ne asciughi le lacrime. Ecco la fragilità dell’eroe di cui tutti si servono per le sue doti, che basta attivare con l’inganno, e solo perché egli non può ingannare né se stesso né eludere la propria chiamata. Achille non può non essere totalmente se stesso, non può non giocarsi tutto. E non per la gloria, bensì per la sua indole. Si scopre poi, secondo una tradizione successiva di aedi, che la sua caviglia non fosse stata immersa nello Stige, e che fosse il calcagno la porta per condurlo nel mondo di Ade. Chi poteva uccidere l’eroe che rischia tutto, se non il vile che non rischia nulla? Se non colui che si cela dietro spalle più larghe, che si abbandona ai piaceri della carne con una donna che non ama e per il quale ha costretto migliaia di uomini a una decade di guerra sotto le mura della casa paterna? Paride, l’inetto, il gradasso, il mezzuomo, buono solo con l’arco perché le frecce sono lo strumento dei codardi, che tirano da lontano ed evitano il corpo a corpo. Il calcagno di Achille, forse la caviglia, forse l’astragalo, trafitti dalla freccia bieca di un ragazzo che mai sarà ricordato come eroe, perché eroe è colui che «realizza se stesso». Non si può realizzare se stessi senza buttarsi nell’arena della vita, senza rischiare il contatto, la lotta all’ultimo sangue con gli elementi. Non è forse tristemente normale che il migliore degli Achei muoia per la bassezza del più codardo dei Troiani?
Achille di fronte a Ettore, due uomini che non sanno mentire, che non possono farlo, costretti a coprire la vigliaccheria di chi imbastisce i conflitti e poi non li combatte. Dopo più di duemila anni, ditemi, cosa è cambiato?
«E la sua, prof?»
«La mia cosa?»
«La sua scena preferita».
«La risposta di Achille a Odisseo. Perché chi non sa mentire viene chiamato impulsivo da chi ben conosce l’arte della menzogna, del sofisma, della mediazione. Perché Achille vive il terribile privilegio di essere se stesso, e per questo non teme la morte. Cantami, o Diva, l’ira onesta del Pelide Achille. Onesta, non funesta. Perché è giusto, per certe cose, provare uno sdegno totale, indignarsi, trovare le parole della rabbia e del disgusto, di fronte al compromesso, alla bugia, all’interesse, e farlo con ardore leonino, senza demandarlo sempre al tavolo delle trattative e al blocchetto degli assegni. Bisogna trovare una voce, prendere le parti e prendersi cura, gettarsi, frapporsi, spendersi senza tornaconto».
Non me lo ha mai chiesto, questo, Bruno. Gli avrei risposto così, probabilmente. E avrei aggiunto: in che senso Cristo vinse la morte? Che non fuggì il dolore di portare fino in fondo, fino al Golgota, il terribile privilegio di avverare la sua natura e la sua visione.
Vince la morte non chi la sfida senza timore, ma chi la avvicina senza temere il proprio sentiero.
Che è mortale, finito, effimero. Bellissimo.
[Dedico queste righe a Bruno, che – come tutti gli eroi – non nasconde la sua menomazione, conosce il coraggio della verità e piange lacrime amare. E come tutti gli eroi sa che il vero eroismo è la completezza, l’integrazione dei tutte le parti di sé, l’avveramento di se stessi. Non vedrai molti esempi di questo, Bruno. Le persone invecchiano, per lo più, ma non compiono il cammino].